
08 Ago Molestie sul luogo di lavoro. Mobbing e bullismo. Parte 2
PARTE 2. Molestie sul luogo di lavoro. Mobbing e bullismo in adulti e ragazzi
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I: Cambiando tema ma restando sempre sull’argomento delle molestie, ci è arrivato il messaggio di una mamma che parla di bullismo scolastico: “Sono la mamma di un adolescente che è vittima di battutine e dispetti a scuola. Che cosa mi consiglia di fare per aiutare mio figlio?”. Anche il bullismo scolastico è in qualche modo una molestia.
D: Sì, normalmente non c’è lo sfondo sessualizzato. Non conosco nello specifico la questione, bisognerebbe capire in che situazione avviene questo. Il bullismo a volte è direzionato da quello che definiamo “bullo” il quale, maschio o femmina, ha delle particolarità che sono normalmente una relazione familiare di poca comunicazione o di comunicazione esasperata, oppure di troppa solitudine. Poi ci sono gli aspetti di eventuale violenza. In questi casi si verifica la tendenza al bullismo che si verifica però fuori casa e spesso i genitori non ne hanno percezione immediata. La vittima del bullismo, invece, può avere una serie di caratteristiche come ad esempio una particolare sensibilità, che tendono all’aiuto: ecco che lì il bullo sa che c’è un terreno dove può esercitare il suo “potere”
I: Che cosa può accadere da adulti a questi ragazzini vittime di bullismo?
D: Il risvolto a livello prognostico è che entrino in una sorta di loop dove tendono a reiterare una sopportazione di chi li aggredisce. Potrebbero diventare adulti che tendono a sopportare o a pensare in modo stabile che la vita è fatta anche di una serie di cose spiacevoli, che è normale subire e sentirsi accusati, vessati e trattati in modo inadeguato, ritenendo che ciò possa essere la normalità. Parlarne in famiglia diventa fondamentale. Bene che questo ragazzo ne abbia parlato alla madre che si sta interessando e che avrà modo di intervenire con azioni concrete per aiutare il figlio. Probabilmente c’è un aspetto di sensibilità, di difesa che va potenziato, oppure altre caratteristiche che vanno valutate, che non si possono raccontare in modo generico. Si può fare qualcosa affinchè le vittime di bullismo non diventino adulti con un’idea stabile di sé di disagio, di persone che non hanno un grande valore per gli altri.
I: Spesso in questi casi di bullismo e violenza sessuale, sta tutto ciò che è sommerso, che non viene denunciato o discusso per paura o per vergogna.
D: Dobbiamo essere noi genitori o noi psicoterapeuti a comprendere che cosa succede nel bambino o nell’adolescente perchè i segnali sono sottili. Ci sono molti motivi per cui un ragazzino può non dire qualcosa di negativo che è accaduto a scuola; a volte per noi adulti sono episodi banali, ma per i bambini sono invece molto rilevanti. Faccio qualche esempio: un bambino può non dire che è stato vittima di bullismo perchè gli sembra di essere visto dai genitori come un debole, o perchè teme di deludere le aspettative di uno dei due genitori che magari ha sempre insistito sul dirgli che è forte e magari lui non si sente così, immaginando di deluderli quindi; un altro motivo può essere che teme le ripercussioni perchè il bullo lo minaccia. Quando vediamo un cambiamento improvviso nei nostri figli, cominciamo a cercare di capire, senza tartassarli, perchè quello è un segnale.
I: Quindi si può vedere qualche spia ed intervenire o quanto meno parlarne, che è sempre la cosa fondamentale.
D: Se vediamo cambiamenti nell’alimentazione, nell’appetito, nel sonno, nelle abitudini cambiate improvvisamente.. sono tutti campanelli d’allarme.
I: Altro tema sono le discriminazioni che avvengono sul luogo di lavoro come il mobbing, che è proprio un reato. Come si definisce?
D: Il mobbing è quell’insieme di azioni che un datore di lavoro, un superiore o anche un pari livello mettono in atto per far sì che la persona vittima se ne vada o cambi qualcosa, o in alcuni casi diventi un bersaglio. Il mobbing è un’azione molto pesante, sappiamo che è penale; produce spesso sintomi molto simili alla sindrome del burn-out (per burn-out si intende quell’insieme di sintomi per cui una persona a causa del lavoro arriva ad un esaurimento nervoso totale, soprattutto per chi ha a che fare con il pubblico), cioè quando lo stress raggiunge un livello insopportabile e viene mantenuto nel tempo. Nel mobbing si ha un effetto molto simile, tant’è che qualcuno dice che il burn-out è una sindrome che si sviluppa quando il mobbing riceve dei cosiddetti “clienti”, viene diviso cioè su più persone. Il mobbing invece è direzionato uno a uno. Anche questo forse è un fattore culturale che dobbiamo considerare; la nostra società è in forte evoluzione, questi aspetti si sono sempre succeduti, lo leggiamo nella storia dell’essere umano. Oggi c’è una maggior tutela fortunatamente, l’importante è che la persona venga messa in uno stato di salute perchè il mobbing va a colpire molto profondamente. Colpisce degli assi dell’essere umano che sono molto delicati: la stima di sé e la possibilità di perdere un lavoro, che insieme alla famiglia sono i tre pilastri fondamentali nella vita.
I: Dottor Canil, Lei è CTP Treviso (Consulente Tecnico di Parte): quanto è facile o difficile dimostrare di essere vittima di mobbing sul luogo di lavoro?
D: Può essere molto facile laddove ci sono prove concrete; in questo caso viene richiesto al CTP di fare il minimo, quindi una diagnosi per rivelare le modalità. Tutto il resto poi lo fa il Tribunale con l’avvocato. In altri casi diventa molto complesso perchè le cose non sono chiare: ad esempio quando nei corridoi del luogo di lavoro una persona riceve frasi sgradevoli piuttosto che essere arginata. Questi casi sono più difficili da rilevare e dimostrare però in qualche modo si trova sempre una soluzione.
I: Demansionamenti e quant’altro sono cose che vanno davvero a colpire nel profondo perchè il lavoro è in fondo la nostra vita. A tal proposito Le leggo una domanda che ci è arrivata attraverso i social: “la mia ragazza subisce mobbing al lavoro dal suo responsabile dopo che lei ha rifiutato le sue avance. E’ stata demansionata e subisce dispetti di ogni genere; io non so più come aiutarla, ora in questo periodo storico non se la sente di lasciare il lavoro ma così non si può più andare avanti”. Cosa possiamo rispondere?
D: Innanzitutto, parlo come psicologo a Treviso, è importante dare un sostegno a questa ragazza perchè diventa una situazione traumatica e traumatizzante perchè quando un trauma è seppur piccolo, in questo caso non lo è, ma ripetuto nel tempo, esso crea traumi importanti. Quindi c’è bisogno di trovare una modalità per risolvere la situazione. Qui chiaramente c’è stata una prepotenza da parte del datore di lavoro che è stato rifiutato, quindi si è innescata una dinamica negativa che raramente ha una soluzione spontanea; normalmente bisogna agire in qualche modo per cambiare luogo di lavoro oppure essere spostati.
I: Nella Sua esperienza di CTP a Treviso, quali sono le casistiche che si verificano? Quali possono essere le cause, come vengono messe in atto queste discriminazioni?
D: Purtroppo devo dire che questo che abbiamo letto non è un caso isolato, di questi casi se ne vedono. Il rifiuto delle avance non ha poi un esito nullo, ma comincia una serie di ripercussioni difficili da sopportare perchè le conseguente sulla persona sono di tipo vendicativo. Immaginiamo quindi la sofferenza che esordisce poi in un disturbo depressivo di tipo ansioso, attacchi di panico, insonnia, disturbi post-traumatici da stress. Il solo pensiero di poter perdere il lavoro va a minare il senso di autonomia della persona che in qualche modo si costringe a subire delle cose negative pur di mantenere il lavoro. Quindi accade veramente un disastro da un punto di vista personale. Bisogna agire velocemente perchè un tipo di vita lavorativa come quella che abbiamo letto protratta nel tempo diventa l’incubo principale di chiunque.
I: Perchè talvolta la vittima si colpevolizza e crede di essere la causa di quelle discriminazioni.
D: Parliamo praticamente di quella che qualcuno ha definito la sindrome di Stoccolma. Pensiamo a quel caso di cronaca in cui la rapita prese le difese del rapitore. Possono innescarsi due meccanismi di fondo: il primo è che ci sia un’anamnesi familiare in cui la persona nella relazione con i genitori è abituata a prendersi le colpe per compiacerli, fondamentalmente per farsi amare. La persona sarà quindi predisposta a situazioni simili e le accetterà con senso di colpa. Il secondo può essere generato dal fatto che la paura diventa talmente grande che la persona che dà attenzioni, seppur negative, diventa per chi le subisce una persona di riferimento. Sembra un paradosso ma noi addetti ai lavori vediamo spesso questa situazione che è anche spesso difficile far entrare in un processo di visione diversa del tutto.
I: le leggo un’altra domanda che ci è arrivata attraverso i social: “Una mia collega subisce mobbing al lavoro. Vorrei fare qualcosa ma non so come intervenire e come consigliarla. E’ Giusto intromettersi e fino a che punto?”
D: Intromettersi è già una parola che ha delle sfumature negative. Non so dirLe se sia giusto intromettersi però credo sia giusto fare almeno un tentativo: provare a parlare alla collega e dirle cosa si pensa mettendosi a disposizione per aiutarla. Poi attendere perchè una volta seminata la disponibilità, la persona che ne avrà necessità si farà viva.
I: Tutte queste discriminazioni influiscono molto sulla salute psicofisica delle vittime, hanno effetti sulla salute mentale, sul benessere anche dei familiari e degli amici di chi le subisce.
D: Direi proprio di sì. Si crea un vero e proprio alone; non soffre solo la vittima ma tutto il contesto familiare o amicale o del lavoro stesso. Si crea un clima di tensione e cominciano dei sintomi come ad esempio insonnia, ansia, attacchi di panico.
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